Mangiare senza stress

Nella società in cui viviamo siamo continuamente stimolati da segnali ambivalenti e confusivi riguardo alla nostra alimentazione: da una parte il culto della magrezza che ci porta a guardare al cibo con diffidenza: chiediamo diete, regole, che ci tengano al sicuro, dall’altra il cibo viene visto sempre di più come necessità e piacere vitale: i ristoranti, i blog di cucina, i programmi televisivi. L’imperativo alla magrezza unito all’enorme offerta di cibo.
Come è possibile, circondati da una quantità tale di stimoli spesso contrastanti trovare il proprio equilibrio?

Il ruolo psicologico dell’alimentazione

Partiamo dall’inizio per capire il ruolo psicologico dell’alimentazione.

Il cibo è, fin dalla nascita, uno dei principali mediatori nella nostra relazione col mondo esterno: alimentarsi ed entrare in contatto con la mamma per un neonato sono la stessa cosa. L’atto del nutrire e dell’alimentarsi non è la semplice soddisfazione del bisogno biologico, ma è dal primo giorno di vita un atto sociale e di comunicazione.

Il processo alimentare è al centro della vita emotiva del neonato e tutte le sue abitudini ruotano attorno ad esso, insieme alle emozioni più importanti: la soddisfazione, la paura, la rabbia.

Il benessere organico che è contemporaneamente nell’esperienza di un neonato, benessere relazionale, alla base di quel senso di fiducia sul quale si fonderà la personalità e l’identità sociale.

La competenza alimentare evolve quindi parallelamente allo sviluppo della reattività emozionale e delle competenze sociali.

Anche l’immagine mentale del corpo si costruisce in rapporto con le figure di attaccamento: il bambino si vede prima di tutto, nello specchio dell’altro. Anche i ciechi dalla nascita hanno un’immagine mentale del loro corpo, costruita su sensazioni propriocettive, muscolari, create dallo scambio avuto con le figure significative: prima i genitori, poi i coetanei, gli insegnanti di scuola, i fidanzati.

In conseguenza, quello che noi siamo è e sarà in parte indistinguibile dal rapporto che abbiamo avuto con le persone significative che si sono prese cura di noi.

Un esempio di questa dinamica è la costruzione dei gusti alimentari: processo in cui intervengono quattro tipi di fattori: biologici, psicologici, culturali, sociali.

Il cibo che gli viene proposto conta tanto quanto da chi e come viene proposto.

A questo proposito sono comuni nei primi anni di vita le “neofobie”, rifiuto di mangiare alimenti sconosciuti.

Ciò può corrispondere ad una fase normale dello sviluppo in cui il bambino impara a selezionare una sua alimentazione, ponendo scelte rigide.

Diversi studi mostrano come questo fenomeno sia influenzabile a livello sociale: i bambini seguono infatti modelli di riferimento; inoltre se la mamma o la maestra mangiano per prime l’alimento rifiutato è più probabile che il bambino sia propenso ad assaggiarlo.

L’età prescolare (3-5 anni) è infatti cruciale per la costruzione delle scelte alimentari. Caratteristiche di questo periodo oltre alle neofobie possono comparire tendenze alla selettività (il bambino “spizzicatore”), fino al rifiuto alimentare.

Gradualmente, fra i 5 e gli 11 anni, acquista maggior rilievo nelle scelte alimentari il gruppo dei compagni di scuola e amici.

Durante l’adolescenza l’influenza del contesto socio-culturale esercita una forte condizionamento su diversi aspetti delle abitudini di vita, compreso il rapporto col cibo.

Accettare un determinato cibo, o “mangiare con…” ci rende parte di un gruppo di riferimento (famiglia, classe, gruppo..) e durante l’adolescenza l’esperienza di fare parte di un gruppo diventa particolarmente importante.

Tre piatti in ceramica su un tavolo di legno

In tutto il corso della vita familiare i pasti sono un momento in cui emergono conflitti su cui i bambini, soprattutto se piccoli, non hanno altro modo di richiamare l’attenzione: anche per questo i genitori hanno la responsabilità dell’alimentazione propria e dei propri figli,  soprattutto riguardo allo stile del rapporto col cibo e alla cura dei momenti legati ad esso.

Durante l’adolescenza le sfumature e le esigenze cambiano ma alcune esigenze fondamentali rimangono le stesse.
I pasti in famiglia rappresentano una vera e propria “risorsa relazionale” per proteggere gli adolescenti da alcune disfunzioni del comportamento: chi fra loro condivide più pasti familiari ha più probabilità di avere abitudini alimentari e nutrizionali più sane e, di conseguenza, è meno a rischio di costruire un rapporto squilibrato col cibo, fino a poter sviluppare disturbi del comportamento alimentare.

Psicologicamente parlando il pasto rimane un momento centrale in cui in famiglia possono essere condivise le esperienze e le emozioni, avere scambi che rafforzano i legami.

Dall’altra parte i fast food, i take away, il mangiare fuori casa o davanti alla TV, rispondono all’esigenza degli adolescenti d’essere indipendenti dai ritmi di vita dei genitori: possono essere esperienze divertenti e piacevoli, ma andrebbero monitorati e non fatti diventare un’abitudine quotidiana.

Suggerimenti per l’evoluzione di uno stile alimentare sano

  1. Fare da modello ai propri figli alimentandosi in modo regolare e bilanciato fin dai loro primi anni di vita
    Trovare momenti di condivisione dei pasti, e cercare di renderli momenti di cura e collaborazione gli uni con gli altri. Questo può risultare difficile sia logisticamente: fra lavori diversi, impegni di tutti i familiari, esigenze di indipendenza di figli adolescenti spesso desiderosi di fermarsi con gli amici, sia psicologicamente: in momenti più conflittuali è più semplice restare ognuno per i fatti propri. È possibile però sforzarsi di usare il momento del pasto e la preparazione del cibo come strumento di “mediazione”: chiedendo ai propri figli riguardo a loro preferenze sui cibi, o organizzando un pasto fuori casa tutti insieme per festeggiare qualche ricorrenza, oppure proponendo di preparare insieme qualche pietanza particolare.
  2. Non indurre un adolescente a seguire una dieta, specialmente se fai-da-te e senza una reale necessità di salute. Se alcuni ragazzi hanno davvero bisogno di perdere o aumentare peso ci si può affidare a un Medico e/o ad un Dietologo o Nutrizionista. In assenza di un supporto professionale che dia delle regole chiare e calibrate sulla persona e le sue esigenze nutrizionali (verso le quali è opportuno che qualora ci si rivolga ad un professionista, tutta la famiglia mostri un atteggiamento coerente) ed in presenza di un momento di vulnerabilità, è possibile che la situazione “sfugga di mano”. Le diete basate sul conteggio delle calorie, infatti, possono privare gli adolescenti dell’energia di cui necessitano. L’organismo, che nella fase adolescenziale è in pieno accrescimento, richiede una dieta ricca di alimenti non solo appetibili ma anche molto energetici che non appesantiscano il sistema digestivo e l’organismo in generale. Le diete fai da te possono inoltre rinforzare alcuni comportamenti di controllo del peso non finalizzati ad un miglioramento della propria salute ma finalizzati a sentirsi meglio con se stessi; atteggiamento che può portare verso una situazione di non controllo patologico dei propri comportamenti alimentari, e della propria autostima. Autostima che nella fase di vita dell’adolescenza è sottoposta a diversi mutamenti e quindi solitamente piuttosto oscillante.
  3. Non focalizzarsi sul peso o sulle forme del corpo. Durante l’adolescenza sono in corso profondi cambiamenti del modo in cui i ragazzi percepiscono se stessi, questo genera spesso insicurezze emotive che possono prendere forme diverse, ma spesso sono accomunate da un importante rilievo che viene dato al corpo, come parte di sé da mostrare per ricevere attenzioni o essere inclusi in un gruppo, come parte di sé che cambia e che provoca imbarazzo. Il corpo è spesso al centro delle priorità emotive di un adolescente e segnalargli che le sue forme e misure sono importanti può dare ai ragazzi il messaggio che saranno accettati solo se sono “della misura giusta”. Ciò incoraggia lo sviluppo di un’insoddisfazione nei confronti del fisico e l’adeguamento a modelli imposti dall’esterno, piuttosto che la ricerca e costruzione di un proprio equilibrio interiore ed l’accettazione di come si è.
  4. Passare ai ragazzi l’importanza di un corpo “sano”, anche attraverso il praticare attività fisica insieme, per aiutarli a costruirsi abitudini salutari ed un’immagine corporea salutare.

Come distinguere un atteggiamento esagerato da una patologia?

Il confine fra patologia e situazione non patologica, oltre che quello statistico delle diagnosi, è quello del ben-essere e della qualità della vita delle persone.

Nelle persone che soffrono di un Disturbo del Comportamento Alimentare (Anoressia Nervosa, Bulimia Nervosa, Binge Eating Disorder ad esempio) un aspetto importante, oltre al rapporto con il cibo, è l’immagine che hanno del proprio corpo.

Come viviamo e ci sentiamo nel nostro corpo è fortemente in relazione con la nostra identità. Inoltre il corpo è il tramite immediato con cui entriamo in contatto col mondo, è come un “campo di indagine” sia su noi stessi, che sui nostri rapporti con gli altri.

È facile che una ragazza adolescente si trovi a vivere un periodo in cui, ad esempio, rivolge un’attenzione costante al peso ed alla forma del suo corpo, ma questo di per sé, non fa patologia.
Da quanto tempo e con quale frequenza però quella ragazza mette in atto comportamenti di controllo del peso e quanto questi comportamenti arrecano danno o limitano la sua vita, che si arriva a valutare quanto quella situazione è a rischio o sta manifestando un vero e proprio disturbo.

È quanto quella persona si sente bene o male esclusivamente in relazione alla forma del suo corpo e quanto fa dipendere da questo la propria autostima, ad esempio, un altro aspetto importante che ci aiuta a discriminare fra patologia e situazione non patologica.

Se l’attenzione alla forma del mio corpo inizia a diventare la motivazione principale di molti miei comportamenti, e di ciò iniziano a pagarne le conseguenze altri aspetti della mia vita come la famiglia, la scuola o le mie relazioni (magari non vado più a mangiare fuori.. ) quella è probabile sia diventata una situazione di disagio.

Questi sono alcuni esempi, ma in generale la linea di confine fra patologia e comportamento sano, al di là della diagnosi specifica, è l’impatto sulla vita quotidiana: quali e quanti aspetti della vita ne risultano compromessi; altro aspetto fondamentale sono le risorse e la flessibilità che un adolescente riesce a mettere in campo per farvi fronte.

L’esordio di questi disturbi inoltre è insidioso, lento nel tempo, e dipende da una molteplicità di fattori, questo può renderli difficili da individuare, nonché da trattare.

Se penso che mia figlia/o soffra di un disturbo del comportamento alimentare?

È opportuno parlarne insieme e rivolgersi ad un professionista della salute.

La terapia più indicata è la psicoterapia, deve essere affiancata alle visite di un medico e di un nutrizionista soprattutto in caso ci sia una situazione di sottopeso o di sovrappeso.

In base alla gravità del disturbo sono consigliabili anche terapie farmacologiche, in affiancamento alla psicoterapia, che è il percorso tramite il quale la persona potrà poi maturare la capacità di non ricadere nel disturbo.

La psicoterapia più validata a livello scientifico per curare i Disturbi del Comportamento Alimentare sono quelle di matrice cognitivo-comportamentale e sistemico-relazionale.

L’ideale sarebbe una psicoterapia ad approccio integrato, differenziabile a seconda delle diverse fasi della malattia, e che coinvolga anche le figure significative per il paziente (familiari, compagni).

All’inizio del trattamento è infatti più risolutivo un approccio cognitivo-comportamentale, utile per stabilizzare i comportamenti alimentari, quindi il peso ed anche i comportamenti e le convinzioni “disfunzionali” che mantengono il disturbo, per poi passare a lavorare maggiormente sulle problematiche personali e relazionali collegate più al “perché” quella persona, proprio in quel determinato momento di vita si è trovata a soffrire di un Disturbo del Comportamento Alimentare.

Andando al di là delle varie metodologie, l’obiettivo della psicoterapia dovrebbe comunque essere quello di consentire alla persona di trarre dal lavoro psicoterapeutico le risorse per “sciogliere” i sintomi ed il malessere, imparando un modo di affrontare la realtà e di leggere se stesso più costruttivo e flessibile.