“La sfida è educare alle emozioni.”
Alberto Pellai
Cosa sono le emozioni?
La parola “emozione” deriva dalla parola latina EMOTUS, participio passato di emovère: smuovere, scuotere.
Charles Darwin per primo nei suoi studi sull’evoluzione intuì che avessero una natura innata e che fossero necessarie alla sopravvivenza della nostra (come di altre) specie.
Sono quindi forze adattive che ci guidano nelle nostre interazioni con l’ambiente, e vengono generalmente considerate:
- un processo che ha un inizio e una fine (la paura che non finiscano mai è quindi concettualmente impropria);
- una reazione, una risposta “multidimensionale” ad uno stimolo ambientale che ci predispone ad agire
- o di breve durata
- o che provoca cambiamenti a 3 diversi livelli, nella paura ad esempio:
- fisiologico: se mi spavento aumenta il battito cardiaco
- comportamentale: se mi spavento urlo o scappo
- psicologico: sperimento una sensazione che posso definire “paura”
Le EMOZIONI quindi:
- ci segnalano quali sono i nostri bisogni ed obiettivi predisponendoci ad agire nel nostro interesse in una data situazione
- ci fanno apprendere quali sono situazioni ed eventi utili o pericolosi, orientandoci quindi nell’ambiente e promuovendo il nostro benessere
- segnalano all’esterno il nostro stato ed intenzioni, hanno una funzione comunicativa e relazionale importante.
Dalla nascita in poi, le emozioni rappresentano un sistema di segnalazione primario che comunica le nostre intenzioni e che regola l’interazione con l’ambiente ed in particolare con gli altri, fornendo alla vita gran parte del suo significato (“Terapia emotion focused per la depressione” Leslie Greenberg).
“Il vero problema di molte persone è che utilizzano buona parte delle loro energie per non sentire le proprie emozioni, per nasconderle, camuffarle, magari diventando iper-razionali, illudendosi con ciò di avere il controllo di qualunque cosa possa accadere o sia accaduta. In altri casi, la vita viene impostata con frenesia, in modo da non potersi mai veramente fermare per ascoltarsi e quindi per accogliere le proprie emozioni.” “Paura di Sentire” Michele Giannantonio.
Diventa quindi importante ascoltare le nostre emozioni, dato che ci aiutano a capire se è il caso o meno di vivere una determinata esperienza.
L’obiettivo di un lavoro psicologico od educativo sulle emozioni ha quindi come requisiti imprescindibili il loro ascolto ed accettazione.
Accogliere le proprie emozioni, infatti, non solo ci fornisce informazioni importanti su quello che sta succedendo o potrebbe accadere, ma ci predispone a lavorarci, occupandocene.
Come si sviluppano le emozioni?
I processi neurofisiologici e le risposte a livello fisico e comportamentale di alcune emozioni basilari fanno parte della nostra specie a livello innato, ne siamo già provvisti al momento di nascere.
È all’interno di un rapporto di attaccamento (genitore-bambino) che impariamo a conoscere e a modulare le nostre emozioni ed i loro correlati a livello di sensazioni fisiche.
I bambini piccoli tendono ad esprimere ogni forma di malessere e bisogno attraverso il pianto. Sarà solo per gradi, attraverso il confronto con le persone che si occupano di lui, che il bambino impara gradualmente a distinguere diversi segnali di attivazione corporea, ad esempio la fame dalla sete, o diverse sensazioni come la noia dalla tristezza, la rabbia dalla paura. Nelle prime fasi di vita i genitori svolgono un vero e proprio ruolo di protesi per fare fronte all’immaturità della fase di sviluppo del bambino che, seppure dotato di questo assetto, deve capire come farlo funzionare, oltre che sviluppare ulteriori strutture cerebrali per elaborarlo in maniera completa.
È a mamma e papà che un bambino implicitamente affida il compito di entrare dentro ai suoi stati emotivi, cogliere nel suo magma un po’ indistinto le sue esigenze, sperando che il suo stato di dis-regolazione emotiva trovi in chi si prende cura di lui la gestione più adeguata e le risposte di cui ha bisogno.
Per educare alle emozioni quindi serve soprattutto saper ascoltare i segnali, dapprima indistinti, poi via via sempre più articolati del bambino.
Sono i genitori con le loro azioni in risposta a ciò che i bambini sperimentano che forniscono risposte che poi i bambini stessi apprenderanno come un modello. Gli forniscono così quelle competenze che gli serviranno a strutturare, differenziare, regolare e gestire le loro emozioni.
Più facile a dirsi che a farsi? A volte sì, a volte no. Ciascuno ha le sue aree critiche, che cambiano a seconda del suo temperamento e della sua storia di vita.
Regolazione emotiva, cioè?
Di fronte ad ogni emozione del bambino, perciò, l’adulto deve entrare nel ciclo di regolazione emotiva ,che consiste in alcune tappe specifiche:
1. attivazione di uno stato emotivo di disagio del bambino (paura, rabbia o tristezza che il bambino non sa gestire)
2. il bambino comunica con comportamenti o verbalmente questo stato ad un adulto
3. l’adulto coglie lo stato di disagio del bambino, né dà una sua interpretazione e, in base a questa, cerca la risposta per gestirlo (solitamente sostenerlo e/o contenerlo)
4. l’adulto risponde con gesti o parole che soddisfino il bisogno emotivo espresso dal bambino
Se la risposta dell’adulto è sintonica con il bisogno del bambino:
5. Il piccolo sperimenta una risoluzione del proprio stato emotivo (ad esempio smette di piangere ed inizia a tranquillizzarsi) e sperimenta una sensazione di appagamento e soddisfazione anche a livello corporeo.
Con la ripetizione di esperienze di questo tipo il bambino apprenderà a livello implicito che quell’emozione si può risolvere, gradualmente imparerà a regolarla autonomamente e le modalità relazionali più appropriate per segnalarla e ricevere sostegno.
In generale le risposte “sintoniche” sono speculari e complementari all’emozione del bambino, alcuni esempi:
- Se il bambino è triste, il genitore ascolta e lo consola
- Se è arrabbiato, il genitore accoglie e contiene la sua reazione gestendola in modo che non faccia male a sé o qualcun altro
- Se è spaventato, il genitore ascolta e rassicura il bambino sul fatto che sarà protetto.
Anche quando il bambino sperimenta emozioni positive, la condivisione con i genitori è importante: la gioia è tale solo se ha accanto qualcuno che sente vicino e con cui può condividerla.
Se la risposta dell’adulto non è sintonica con il bisogno del bambino:
- il piccolo “insiste” e continua a segnalare il proprio stato di disagio, spesso aumentandone l’intensità
- il genitore può fare un tentativo diverso, in questo modo “riparare” ed arrivare ad una sintonizzazione.
Se dopo diversi tentativi l’adulto non risponde sintonicamente, e questa situazione si ripete stabilmente nel tempo, il bambino sarà portato a sviluppare meccanismi di auto consolazione e di ritiro dalla relazione.
Edward Tronick ha compiuto studi molto famosi sui meccanismi di sintonizzazione e riparazione che hanno evidenziato che non sono l’incomprensione, la frustrazione, le esperienze di rifiuto in sé a dare esiti di sviluppo negativi, ma l’impossibilità ripetuta di ripararli ricostruendo un successivo momento di sintonia con il genitore.
Mancanze di sintonizzazione, errori di comprensione rientrano nella “fisiologia” di questi scambi emotivo-relazionali.
Ciò che è importante per lo sviluppo di una buona capacità di sintonizzazione con il proprio bambino è la capacità di riparare alle mancate sintonie: è previsto nel pacchetto di cui siamo biologicamente dotati procedere per prove ed errori.
In molti casi i genitori sono in grado di portare avanti questo processo in modo spontaneo, gestendo in modo adeguato le diverse situazioni di incomprensione e disagio emotivo che sperimenta il bambino.
Affrontare queste situazioni in modo sereno, positivo, con la percezione di saper essere efficaci nel gestirle, sono i presupposti per trovare dentro di noi le risposte più giuste per ogni specifica situazione.
In questo modo aiutiamo i nostri figli a costruire tutte quelle connessioni neuronali che gli consentiranno una buona regolazione emotiva.
È all’interno di questo schema che il bambino impara a dare un valore ai propri stati emotivi, e che gradualmente ne potrà comprendere il significato.
Alcuni esempi concreti
Le emozioni “fanno male” quando il bambino non trova nell’adulto la capacità di gestire le sue emozioni impazzite dice Pellai.
Ad esempio un comportamento oppositivo e rabbioso può far arrabbiare anche il genitore, non consentendogli di capire come contenere suo figlio, proprio nel momento in cui ne avrebbe bisogno per “addomesticare” le contenere a sua rabbia.
La tristezza di un figlio spesso fa sentire un genitore impotente e può portarlo a dare risposte del tipo: “ non essere triste”, “non è niente”. Queste risposte minimizzano il significato di ciò che il bambino prova e non gli consentono di entrare in contatto con ciò che prova e di elaborarlo, attribuendogli l’importanza che merita.
Spesso infatti in queste situazioni noi adulti, per non sentirci spiacevolmente impotenti, proponiamo soluzioni distraenti o consolatorie del tipo: “andiamo a fare merenda così non ci pensi più”, prima di aver empatizzato o condiviso lo stato del bambino. Scorciatoie apparentemente funzionali che però in realtà non gli garantiscono l’elaborazione di quell’emozione e la fruizione del bisogno sottostante che in questo modo il bambino non apprende completamente.
Un altro suggerimento è quello di non ridicolizzare o minimizzare le emozioni dei bambini. Se per caso ci succede, possiamo accorgercene se vediamo che con la nostra risposta il bambino aumenta l’intensità dell’emozione negativa (segno che la nostra risposta non è sintonica, quindi non sufficientemente empatica). In questo caso occorre ricorrere ad un ascolto empatico: chiedersi cioè cosa starà provando mio figlio? Come mai si sente così male?
Possiamo chiedere di spiegarci meglio, e potrebbe essere lui stesso a suggerirci il da farsi, ad esempio come combattere quel mostro che lo spaventa.
Le emozioni sono segnali sociali, ci servono per comunicare. Continuiamo a provarle finché non ci arriva la sensazione di “ricevuto” da parte dell’altro, cioè dopo una condivisione empatica.
Funzionano nell’attivare in noi processi di problem-solving solo dopo che le emozioni si sono sciolte, dopo il messaggio di “ricevuto” della condivisione empatica: se vogliamo usarle a nostro beneficio occorre starci, non evitarle.
L’esperienza di educare i nostri figli alle emozioni, se vissuta in questa prospettiva, non può he aiutarci a conoscere aspetti nuovi della nostra vita emotiva e ad acquisirne una maggiore padronanza.
Per fare palestra di emozioni ed impararle non serve altro che riconoscerle e viverle.
Bibliografia
- “L’educazione emotiva” Alberto Pellai Ed.: Fabbri
- “Paura di sentire” Michele Giannantonio Ed.: Erikson
- “Il cervello emotivo” Joseph Le Doux Ed.: Baldini + Castoldi
- “Terapia emotion-focused per la depressione” Leslie Greenberg Ed.: Fiera & Liuzzo Publishing